La Willamette Valley in Oregon è la patria di alcuni dei più rinomati pinot nero e pinot grigio statunitensi.
La storia di questi due vitigni nella valle può essere fatta risalire a una sola azienda vinicola, la Eyrie Vineyards, fondata da David Lett nel ’65.
Oggi la Willamette Valley è una vera e propria potenza vinicola, con circa 11.000 ettari di vigneti – più dell’intera regione Calabria, o sette volte più della Liguria. L’85% di essi è dominato dalle due varietà piantate qui per la prima volta da Lett nei vigneti Eyrie.
I lieviti selvatici di Willamette Valley
Più di 50 anni dopo, il figlio di David, Jason, gestisce gli Eyrie Vineyards, che da allora ha introdotto nuove varietà nella Willamette Valley ed è passato all’uso della fermentazione con lieviti selvatici. Abbiamo parlato con lui per avere un quadro più chiaro della storia di Eyrie, un bellissimo esempio di cantina “lenta” e un’ispirazione per altre cantine.
Come è nata Eyrie e come sei stato coinvolto?
Le prime viti sono state piantate nel 1965, il 22 febbraio, quindi stiamo arrivando al 57° anniversario dell’impianto di quelle talee. Ci vogliono cinque anni per ottenere una vite produttiva da una talea come quella, quindi la nostra prima vendemmia effettiva è stata nel 1970. Quello è anche il periodo in cui sono nato, e alcuni dei miei primi ricordi di vita riguardano l’aiuto alla vendemmia quando avevo solo tre anni.
Ho continuato a lavorare nelle vigne durante la mia adolescenza, per la paghetta, ma nella mia testa pensavo che quando fossi stato abbastanza grande mi sarei trasferito in città e avrei scritto romanzi. Ho lasciato casa a 18 anni con questa intenzione, ma alla fine sono finito a studiare ecologia vegetale all’Università del New Mexico, in un clima significativamente diverso da quello con cui ero cresciuto. Ultimati gli studi, avevo intenzione di andare alla scuola di specializzazione, ma mio padre aveva bisogno di aiuto per il raccolto del 1997. Inizialmente avevo pianificato di tornare solo per tre settimane, ma poi ho capito che per applicare la mia passione per l’ecologia vegetale nulla era meglio della vinificazione.
Un approccio non convenzionale

Nei primi tempi tempi, l’approccio alla vinificazione a Eyrie era considerato a dir poco non convenzionale.
Abbiamo sempre avuto una prospettiva ecologicamente informata, e abbiamo capito fin dall’inizio che quello che stavamo facendo era radicale. C’è stato un lungo periodo in cui i nostri vicini viticoltori ci guardavano dall’alto in basso per il modo in cui lavoravamo: non arando o irrigando, non usando portainnesti, non distanziando le viti più vicine tra loro. Allora la certificazione biologica non esisteva nemmeno… Sin da quando abbiamo iniziato, mio padre aveva sempre insistito che i vigneti di Eyrie fossero senza pesticidi. Non ci siamo certificati come biologici fino al 2013, quando ho iniziato a farlo. Ora credo di avere una maggiore tolleranza per le scartoffie!
Da allora, naturalmente, le cose sono cambiate. Oggi c’è un’alta percentuale di viticoltori che coltivano biologicamente da queste parti, forse il 30% di tutti i vigneti della Willamette Valley, e un altro 40% che sostiene di osservare i princìpi dell’agricoltura biologica, quindi potremmo arrivare al 70% di tutta l’uva.
Questo non sarebbe possibile se la terra non fosse adatta alla viticoltura.
L’idea rivoluzionaria di mio padre era di fare sì che l’uva deve crescere nel posto migliore per lei. Voleva coltivare il pinot nero e quindi cercava un’analogia con la Borgogna, la sua patria. Cercò ovunque: dal Portogallo alla Nuova Zelanda, ma fu qui nella Willamette Valley che trovò le condizioni migliori. È stata una decisione presa dopo un sacco di ricerche; altrove negli Stati Uniti si trova spesso gente che abbandona i vitigni senza considerare come queste varietà si sono evolute e senza prendere in esame le condizioni in cui vogliono vivere: questo non è sostenibile.
Puoi dirci di più sulle condizioni dei vostri vigneti?
Abbiamo cinque appezzamenti che compongono la tenuta, circa 24 ettari in tutto, che vanno dagli 80 ai 280 metri sul livello del mare. C’è una vasta gamma di microclimi man mano che si sale dalla parcella più bassa a quella più alta. Salendo, accadono tre cose: in primo luogo, la composizione del suolo cambia, diventando più vulcanica. In secondo luogo, la quantità di vento costiero aumenta, e in terzo luogo la temperatura media scende. Tutti questi fattori hanno un impatto sul profilo sensoriale delle uve e del vino.
Così “Sisters”, la parcella più bassa, è anche la più calda. Ha la più grande miscela di suoli sedimentari che si sovrappongono al suolo vulcanico nativo. I vini che ne derivano sono distinti dal punto di vista varietale, quindi è qui che facciamo le prove con i portainnesti e con i cloni, perché si può assaporare più facilmente la differenza.
E più in alto?
Più in alto abbiamo due vigneti uno accanto all’altro, “Outcrop” e “Eyrie”. Il suolo, l’altitudine e l’esposizione sono gli stessi, ma le viti a Eyrie sono più vecchie di 25 anni, quindi è un confronto interessante. Sono entrambi abbastanza trasparenti nel colore e nel sapore, con le tipiche qualità speziate delle Dundee Hills, ma ciò che è interessante è quanto siano sfumati e stratificati i vini dalle vigne più vecchie.
Il vigneto più alto è “Daphne”, un piccolo appezzamento di pinot nero piantato nel 1974. È una specie di vigneto bonsai, a causa delle temperature più basse e dei venti più forti, con viti che sono minuscole nonostante l’età. Le bucce dell’uva sono anche più spesse a causa di questo vento, e le rese sono minori. I vini qui sono molto concentrati, ma i parametri di maturità sono più bassi: c’è meno zucchero e più acido.
Che impatto sta avendo il cambiamento climatico su questi vigneti?
Negli ultimi 15 anni siamo entrati in un’era di estrema variabilità. Dal 2007 abbiamo avuto alcuni dei nostri raccolti più caldi di sempre, e anche alcuni dei più freddi. Ci sono anche più incendi stagionali, e il loro raggio d’azione si sta espandendo costantemente verso nord dalla California. Mi aspetto che presto li vedremo regolarmente a nord fino alla British Columbia e all’Alaska. La minaccia non sono tanto gli incendi in sé che bruciano direttamente i nostri vigneti, ma il fumo che generano può influenzare il sapore dell’uva.
Alcune varietà di uva sono più resilienti di altre, di fronte a questo clima cosa cambia?
Lo chardonnay sembra essere abbastanza a prova di bomba. Delle cosiddette “varietà nobili”, il pinot nero ha la finestra di maturazione più stretta, mentre lo chardonnay può crescere ovunque dalla Champagne alla Napa Valley. Le sue bucce sono ragionevolmente spesse per un’uva da vino bianco, e si sta dimostrando molto resistente. Infatti, se le nostre peggiori previsioni si avverano e non riusciamo a contenere la crisi climatica, allora potrebbe essere l’unico tipo di vino che ci rimane.
Allora perché far parte della Slow Wine Coalition? Cosa cercate quando parlate con altri produttori di vino?
Slow Wine incoraggia le persone, sia i consumatori che i produttori, ad avere un approccio più ponderato. Trovare il modo di comunicare questo approccio aumenterà il valore di Slow Food nel mondo del vino. Nelle mie interazioni con altri produttori di vino cerco spiriti affini. Cerco persone che comprendano il vino come un mezzo potente per esprimere il nostro tempo fugace sulla terra, nei suoi cento giorni tra la fioritura e la vendemmia. Quando incontro persone così, la conversazione scorre senza sforzo, dai metodi ancestrali di coltivazione ai caratteri dell’uva. Penso che il vino debba avere un significato. Se è solo una bevanda con una gamma di sapori che estraiamo da una ruota predeterminata, allora potremmo anche bere solo Coca Cola o un qualsiasi vecchio prodotto industriale. Ecco cosa dovrebbe essere la Slow Wine Coalition: un modo per riunire persone come noi che credono che il vino abbia un significato più profondo.
di Jack Coulton, info.eventi@slowfood.it
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